Le fotografie che Emanuele Cavalli realizza in esterni, al di fuori dello spazio dello studio, e perciò prive di qualsiasi allestimento e preparazione, rivelano non solo la sua familiarità e perizia con il mezzo fotografico ma soprattutto la sua capacità di servirsene per ottenere immagini liriche, in cui lo sguardo del fotografo è in grado di individuare i più prosaici brani di realtà e di coglierne una componente metafisica o surreale. La finezza di Cavalli fotografo consiste proprio in questa sua capacità di coniugare l’intuizione lirica con la geometria della forma e lo studio dell’impaginazione. Sono, quindi, soprattutto le fotografie in esterni che consentono di evidenziare questo equilibrio tra la purezza dell’immagine, fresca come un’image à la sauvette, e il senso rigoroso della composizione in cui sembra avvertirsi quella scansione ritmica e geometrica degli elementi e dello spazio che caratterizza la sua ricerca pittorica e fotografica. Cavalli, grande appassionato di musica classica, costruisce le sue immagini come delle sinfonie, strutturandole secondo una raffinata alternanza di suoni e di pause, di ritmi e di silenzi. Ed è proprio un misterioso ed arcano silenzio quello che sembra aleggiare su Forte Belvedere, 1958. L’ immobilità sospesa e l’atmosfera rarefatta pervadono questa immagine onirica e misteriosa in cui le due figure umane sia pure in contrasto cromatico con lo spazio circostante, sembrano fagocitate dalla monumentalità arcana del Forte, dalla solennità curva delle sue arcate, dalla crudezza della sua pietra. È una fotografia essenziale, che nel suo enigmatico silenzio e nella definizione geometrica delle forme, riecheggia le immagini inquiete, angoscianti, dense di tensione con cui si conclude il film L’eclisse di Antonioni. La presenza dei due uomini, con i loro abiti di un nero profondo, non fa che esacerbare questa sensazione di straniamento, immersi come sono nella monumentalità dello spazio. Nonostante le due figure siano impegnate in una conversazione, un senso di interminabile silenzio, che sembra promanare dalla crudezza stessa della pietra, si distende sull’intera immagine. Quello che più colpisce nella fotografia è il suo senso di indefinibile enigma, di sospeso mistero che sembra riecheggiare il silenzio carico di interrogativi delle piazze di De Chirico. La fotografia coglie l’istante di stupefatto stupore postulato dal realismo magico, dei cui umori sono intrise le opere di Cavalli. L’immagine qui esaminata coniuga l’austerità delle forme con un’atmosfera di rarefatta surrealtà. Quella di Cavalli è una surrealtà che si risolve all’interno della realtà stessa, che ne costituisce un livello superiore e che non mira mai a trascenderla. Lo stesso Cavalli sostiene che la sua pittura “pur rappresentando un’astrazione – ma non nel senso dei surrealisti – non si distacca molto dalla realtà; anzi io cerco sempre di far aderire il mio mondo fantastico al mondo reale”. Da questa tangenza tra mondo reale e mondo fantastico in cui sembra riecheggiare il primato dell’immaginazione postulato da Massimo Bontempelli deriva il fascino arcano delle fotografie di Cavalli.